
Perché i social network hanno reso tutti più soli ( e stupidi )
Perché i social network hanno reso tutti più soli ( e stupidi )
“Insomma, un individuo che rifiutasse allo stesso modo la violenza del disadattato e il disadattamento alla violenza del mondo, dove troverebbe la sua via? Se egli non eleva a teoria e a pratica coerenti la sua volontà di compiere l’unità con il mondo e con sé, il grande silenzio degli spazi sociali erige per lui il palazzo dei deliri solipsisti.”
[Raul Vaneigem] – [Trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni]
Se non sei sui social non esisti, è questo il nuovo imperativo categorico del tempo presente; ma questo esserci e questo comunicare celano il prezzo della propria visibilità.
Le relazioni umane sui social network corrispondono, nell’ambito della comunicazione, ad una pseudo socialità, eviscerata dalla sua natura di contatto.
Al riparo dagli accidenti e dalle contraddizioni della realtà interiore, ognuno corrisponde all’immagine statica di ciò che vorrebbe esprimere della sua attività mentale, ma vi riesce solo attraverso una schematizzazione pianificata che tutela l’esposizione del proprio pensiero dalla realtà imprevista; il pensiero subisce esattamente quanto accade alle foto delle modelle prima e dopo l’editing di Photoshop, viene depurato delle imperfezioni emotive.
I social network e le piattaforme per la comunicazione condivisa sul web, forniscono il palcoscenico che restituisce l’illusione di partecipare alla comunicazione spettacolare (qualcosa di simile ai famosi 15 minuti di celebrità predetti da Warhol). Prima del loro avvento la comunicazione spettacolare e l’informazione che ne derivava erano sempre state unidirezionali e subite passivamente dalle masse, giacche i mezzi della comunicazione sono sempre stati nelle mani di pochi, di quei pochi che ne hanno avuto la proprietà e il potere appunto.
Con l’avvento di internet prima, e dei social dopo, viene finalmente rovesciato l’equilibrio tra il palco e la platea, e ognuno si è assunto il privilegio e l’onere di mostrare le proprie opinioni al mondo. Tuttavia questa possibilità di esprimersi non avviene sotto il libero cielo del possibile ma sotto il tetto del teatro del potere; essa è data dall’artificio dello spettacolo che si traduce nello spettacolo di se stessi e del proprio pensiero, confezionati in formato digitale, e messo in scena su un vasto palcoscenico desolato; i cui proprietari hanno abilmente imparato a mascherare da libertà possibili le offerte scenografiche della pubblicità, comodamente al riparo dal contatto umano che ne è la verifica.
I social network erigono l’ultima distanza siderale dell’umanità da se stessa, la comunicazione che vi si palesa elimina il rischio degli aspetti vitali, e per questo sempre passibili di non essere all’altezza delle aspettative, che contraddistinguono la presenza umana. Vi si inscena una dialettica che elimina il thanatos a favore di una rappresentazione di se sempre desiderabile, anche nella goffaggine teneramente esibita o nella violenza esteticamente rappresentata.
Dietro i gattini , le citazioni sempre puntuali, i selfie con la bocca a culo di gallina e le espressioni seriose e penetranti, si cela l’ultima indicibile verità sull’uomo moderno e sulla sua condizione interiore: persino la possibilità di esprimersi è ormai esausta e mai soddisfatta; i continui aggiustamenti millimetrici della propria immagine celano lo sconforto del non essere adatti . Persino nelle ostentazioni di umiltà, autocommiserazione o ineleganza si cela lo spettro della propria individualità muta, che si esprime ma non dice, non comunica, se non la possibilità di partecipare al vuoto discorso della vuota realtà spettacolare.
Il fenomeno dei social banalizza la comunicazione appiattendola al livello della cartolina o della caricatura, e rende obsoleta la solitudine.
Ognuno trova la sua nicchia nel magma apparentemente disordinato di una realtà che è il riflesso dei rapporti di produzione e consumo del nostro tempo. Il prodotto sei tu, ecco perché i social network sono e saranno sempre gratuiti. Lo spettacolo sei tu, e i tuoi spettatori sono altri attori come te in attesa della propria ribalta. Ciò che qui è in vendita è il desiderio di partecipazione, di esserci, un mercato che si tiene a partire non da ciò che si potrebbe desiderare ma da ciò che nessuno vorrebbe.
Una delle funzioni più rilevanti dei social network e della comunicazione digitale è quella di costituire un archivio del ricordo, dove si possano fissare le tracce della propria presenza, esorcizzando l’ansia di partecipazione alla realtà. La ricerca della certezza della propria esistenza, in attesa di felicità possibili ma mai vissute. Una illimitata serie di felicità omogenee,fissabili, che negano il passato e la storia e che aboliscono il dolore. È il sogno di immortalare il tempo e renderlo umano. L’infinito alla portata di una scimmia.
Ma il proprietario dell’archivio è anche il proprietario della storia, che finisce per ridursi a ciò che è stato il presente fissato per sempre. La storia è sempre stata ciò che si può fissare e tramandare, e l’immensa mole di informazioni generate in rete sta soverchiando il numero delle esperienze reali, ridefinendo i confini dell’immaginazione e con essa i confini dell’ideare.
Esserci è sostanzialmente la fuga dal proprio se originario, imperfetto ma reale perché mutevole, esattamente agli antipodi della propria rappresentazione virtuale fissata in un istante particolare eretto a rappresentazione totemica.
Esiste un utilizzo puramente utilitaristico e funzionale di questi mezzi, ma se non genera una reazione umana immediata e reale esso è perlopiù ignorato o considerato non interessante, proprio perché soltanto utile esso è noioso e non desta attrattiva; solo i messaggi che lasciano intuire senza mostrare attraggono le attenzioni morbose più numerose, essi lasciano presagire qualcosa senza mostrare nulla di definitivo, ed è la fantasia del fruitore a riempire lo spazio che separa il messaggio dal suo contenuto effettivo, generando un onanismo concettuale diffuso ma celato.
Talvolta persino le evidenze acquisiscono il carattere di un metatesto inespresso e tendenzioso per un sottile gioco di allusioni che non rimandano in realtà a nulla, se non al loro eco stesso.
Esiste un tempo in cui le parole o le immagini significano esattamente se stesse, questo orizzonte è esattamente quello più lontano dalla natura artificiale della comunicazione sui social network.
È curioso come in essi ci si prenda spesso gioco delle esternazioni più grossolane dei meno informati, mentre sia invece proprio la banalità il motivo più veritiero di questo gioco, proprio perché si partecipa all’ultima fase della separazione dell’uomo de se stesso esservi alieno è veritiero; provate solo ad immaginare quale vantaggio otterrà il sistema che ne è artefice quando la comunicazione tra individui sarà definitivamente elegantissima, accattivante, ma superficiale e perlopiù inutile.
Ciò che qui si va perdendo è proprio la possibilità di superare l’equivoco; non è più di alcuna utilità il capirsi se si ricevono innumerevoli like o condivisioni o visualizzazioni che siano, l’apparenza si impossessa in questo modo anche dell’ultimo residuo di realtà generando un’epidemia di disattenzione, e quando tutti i partecipanti saranno finalmente perfetti nel comunicare sobriamente nell’equivoco, il passivo mutismo dello spettatore sarà compiuto definitivamente, e la capacità di intendersi perduta per sempre.
È probabile, e di certo auspicabile, tuttavia, che l’era post social riconsegni al silenzio il suo valore ermeneutico.
Ma questa è un’altra storia.