Chi ha paura dell’intelligenza artificiale?

O meglio, la domanda corretta dovrebbe essere: di cosa ha paura chi teme lo sviluppo dell’intelligenza artificiale?

Sarebbe suggestivo, ma poco verosimile, giustificare questa paura evocando gli scenari apocalittici dell’immaginario cinematografico hollywoodiano.

Per quanto questi scenari siano terrificanti sarebbe comunque emotivamente rassicurante illudersi di poter trarre da quelle narrazioni , votate all’intrattenimento, la presunzione di poter prevedere gli esiti di una possibile conflittualità tra l’intelligenza umana e quella artificiale.

Ma, è realmente la possibilità di un conflitto tra l’uomo e la macchina, il fantasma che si aggira inquieto pervadendo e insinuando paure sconosciute e insondabili, nel profondo delle coscienze dei contemporanei nel 23esimo secolo?

 O piuttosto questi dubbi e queste paure riguardano ataviche perplessità evolutive, con la quale l’uomo moderno non si è mai realmente riconciliato, e che emergono con gravosa urgenza dal campo dell’inconoscibile?

Non è forse vero che , per quanto complessa, la struttura degli algoritmi che regolano il funzionamento di una intelligenza artificiale, è comunque anch’essa il frutto dell’applicazione di una tecnica? Un prodotto dell’intelletto umano, al pari di ogni ausilio standardizzato?

 Ripetibile e prevedibile la tecnica funge da ausilio alla capacità di adattamento della specie, né determina, a suo proprio modo, la capacita’ di relazione, sia con l’ambiente che con i suoi simili.

La tecnica si integra alle possibilità di sopravvivenza già acquisite grazie all’evoluzione della specie.

Di cui lo sviluppo della tecnica stessa è un elemento dinamico.

Essa è un’ulteriore tassello, in ordine cronologico, di questa stessa evoluzione.

È certo vero che tutte le innovazioni tecnologiche hanno suscitato , ai loro albori, uno stupore e una apprensione che rasentavano la suggestione esercitata dal paranormale e dalla magia, ma nel corso del tempo, queste innovazioni , sono state assimilate alla lunga lista di scoperte che contraddistinguono la storia della scienza tecnica, e hanno finito per essere considerate come patrimonio culturale.

Per quanto concerne il timore e il sospetto che una tecnologia può suscitare durante la sua applicazione sperimentale, è banalmente ridondante affermare che essa possa essere utilizzata per fini positivi e al tempo stesso sia sempre suscettibile di diventare un pericolo se utilizzata con finalità offensive.

Ciò è vero in misura variabile per tutte le attività umane, la cui natura è ambivalente quanto la natura umana stessa, e tale constatazione non è argomento sufficiente a chiarire , se non parzialmente, la radicalità del rapporto tra l’uomo e la tecnica .

Ne le conseguenze e le implicazioni di questo rapporto sul piano evolutivo ed etico.

 Ne tale argomento permette di comprendere la dimensione antropologica dalla quale scaturisce l’ambizione, profondamente radicata nella natura umana , riguardante la possibilità , temuta e agognata, che una creazione umana inorganica si emancipi dalla volontà umana e acquisti vita cosciente propria.

Con buona pace degli apologeti della dicotomia semplicistica tra naturale e artificiale, la tecnica è un fenomeno del tutto umano, non è il lascito di una specie aliena, e comunque, anche se lo fosse, sarebbe soltanto il risultato dell’interazione con una natura ancora sconosciuta. Nient’altro che una simbiosi come se ne vedono tra tutte le specie. I sostenitori di questo dualismo raramente si fanno carico della responsabilità di indagare profondamente cosa sia naturale, e cosa realmente si intende quando si parla di” natura” .

In ogni caso, non è verosimilmente valutabile il rapporto tra l’intelligenza umana è quella artificiale , e prendere seriamente in considerazione le cause di una possibile conflittualità tra di esse, senza considerare le implicazioni evolutive , etiche e ontologiche del rapporto tra l’uomo è la tecnica.

 Si rischierebbe, altrimenti, di restare impantanati tra le pastoie di posizioni dicotomiche, ideologiche e anacronistiche, quali ne sono esempi purtroppo attuali , il becero transumanesimo oltranzista, condannato in partenza ad erigere altari sacrificali dove si immola la natura umana alla scienza come unico orizzonte possibile di verità, o le narcotizzatizzanti  nostalgiche visioni naturiste della subcultura new age, del cui folklore si è vittime estetiche  prima che ideologiche; votate alla celebrazione di un passato idilliaco irrecuperabile a cui tendere , anche soltanto idealmente, ma molto funzionale ai fini del greenwashing marketing merceologico. Una versione moderna del luddismo che cela sotto la celebrazione della natura un ‘anacronismo reazionario .

Queste posizioni sempre parziali non fanno altro che ripetere incessantemente il processo dialettico di nascita e morte di ideologie consunte, che sarebbero state forse attuali durante la prima rivoluzione industriale, quando  la meccanizzazione dell’esperienza umana si imponeva per la prima volta nella storia come un evento di portata straordinaria, ma che oggi, ora che tale esperienza è già di fatto un dato storico assimilato, si risolvono in un passatempo sterile per teoreti timorosi e annoiati, incapaci di una prospettiva di futuro che sia degna del coraggio di un salto nell’ignoto.

Occorre invece ripensare il rapporto tra l’uomo e la tecnica come un processo in itere, non una contrapposizione tra natura e cultura, ma una mutazione in seno alle possibilità di sopravvivenza della specie.

E questo processo non è solo un resoconto di fatti, accumulati sul binario di un tempo lineare , omogeneo e vuoto, come una certa ideologia del progresso vorrebbe indurci a credere, ma un incessante convulso intimo stravolgimento nel cuore della specie umana, in cui non vi sono certezze ma solo opportunità, una costante radicale mutazione avvinta nell’ incessante contaminazione tra il possibile e l’indeterminato, sempre sospesa tra le influenze del suo habitat e le determinazioni del suo patrimonio genetico.

Dunque cosa è la tecnica?

La tecnica (dal greco τέχνη [téchne], “arte” nel senso di ‘perizia’, ‘saper fare’, ‘saper operare’) è l’insieme delle norme applicate e seguite in un’attività, sia essa esclusivamente intellettuale o anche manuale. ( Wikipedia)

La tecnica, è essenzialmente abilità, metodo, capacità, non una abilità, ma la abilità , quella disposizione tipicamente umana a determinare la distinzione tra il possibile e l’indeterminato e a razionalizzarne l’esito .

Essa è la dimensione nella quale l’esistente si trasmuta nella sua funzione, dove l’esistenza assume uno scopo, dove ciò che esiste diventa utile, utilità e scopo che ne determinano irrevocabilmente una direzione e un senso.

La tecnica non è soltanto una capacità ma è invece una visione del mondo, una scelta irrevocabile di prospettiva, che separa tutto ciò che esiste dalla manifestazione del semplice fenomeno , e lo consegna alla narrazione dell’utilizzo, del senso e dell’efficacia.

Per quanto esistano animali capaci di esercitare una tecnica , l’uomo è distinto dagli animali proprio dalla tecnica, perché per l’uomo la tecnica travalica la semplice efficienza di una soluzione operativa finalizzata al raggiungimento di uno scopo , ma nel suo applicarsi, invece , diviene una immanente manifestazione del possibile, una chiave interpretativa della realtà.

La tecnica è per l’uomo il possibile stesso  , la realtà potenzialmente configurabile come dotata di senso, e l’attribuzione di questo senso univoco implica necessariamente uno scopo quale finalità ad uso di un soggetto univoco .

La tecnica è la sostituzione dell’esperienza umana diretta del mondo con la rappresentazione funzionale di un mondo, tanto quanto è il risultato della sostituzione delle variegate capacità propriamente umane con l’ausilio tecnico , che diviene pertanto protesi, e il cui impiego determina irrevocabilmente un orizzonte di senso e di scopo univocamente determinato.

Ma ogni tecnica è, al contempo , una acquisizione e una rinuncia all’autonomia, la sua scelta determina una standardizzazione che si appropria dello spazio ascritto alla varietà naturale, in cui riposano inespresse tutte le soluzioni possibili alla vita.

La sostituzione dell’esperienza diretta della realtà con una sua rappresentazione funzionale è un processo ontologico che investe primariamente la dimensione interiore dell’uomo, la cui duttilità dipende per caratteristiche innate da una predisposizione al cambiamento e alla mutevolezza.

Quando una esperienza è sostituita con la rappresentazione di quella esperienza la realtà assume i connotati di una sequenza di ipostatizzazioni, svincolate dal flusso fenomenico, che da convenzionali si cristallizzano in una monade, emancipata dal tessuto della realtà che la genera e nella quale è immersa.

 Questa qualità autonoma autoassunta è il nucleo dal quale si dipartono tutte le epifanie , prima tra tutte l’essere in quanto soggetto individuato.

Da cui il problema del rapporto tra la coscienza e la tecnica.

Per quanto non sia stato ancora stato possibile definire univocamente cosa sia la coscienza, essa è probabilmente , presumibilmente, la prima forma di tecnica.

Giacché è anche la primaria forma di distinzione operante esercitata dall’uomo sulla sua presenza naturale e sulla sua presenza nel suo ambiente. La coscienza è distinzione da sé prima che dal mondo, è una affermazione irrevocabile di univocità, è l’affermazione che qualcosa non potrebbe essere altrimenti, è la copula che nega ciò che essa non è, e come tale la prima forma di ideologia. (Adorno)

La tecnica è essenzialmente una ideologia, o meglio, la sua trasposizione sul piano pragmatico.

L’attribuzione dello stato di cosciente è irrevocabilmente attribuzione di senso. E come tale di direzione e funzione.

Bisognerebbe leggere sotto questa luce la diatriba tra coloro che sostengono che anche gli animali siano dotati di coscienza e i loro avversari che ne sostengono la posizione opposta. Ma questa trattazione non trova, per ora, spazio in questa sede, per ragioni di tempo, pur restando evidente il paradosso per la quale l’uomo si fa unico investitore capace attraverso il suo giudizio di stabilire quale essere sia cosciente e quale no pur non sapendo neanche esattamente cosa sia la sua stessa coscienza.

La coscienza individuale è il riconoscimento di un valore aggiunto alla semplice esistenza, è una ricongiunzione latente mai completamente esaurita, un riposizionamento che prevede una separazione originaria dal continuum dell’esistenza, che anzi distingue l’uomo da sé stesso e dalla sintesi con il suo ambiente in modo irrevocabile .

Essa è la consapevolezza di esistere come entità ma è al contempo anche la consapevolezza di essere distinto da tutto ciò che esiste. Non sarebbe altrimenti possibile distinguere il sé da tutto ciò che è altro da sé.

Il rapporto tra l’uomo e la tecnica è il risultato operativo secolarizzato di questa distinzione primigenia, esso è pertanto determinato dalla distinzione operata nell’ambito del riconoscimento della propria separazione dall’esistente, esistente che si dà come un continuum omogeneo e privo di un senso univoco.

La tecnica , così come la coscienza individuale, sono assunte , evolutivamente parlando , come convenzionalità verosimili per funzionalità.

È a partire da tale assunto che è possibile strutturare come metodo gnoseologico, la logica razionale , il principio di non contraddizione , il rapporto di causalità , e le loro conseguenze ontologiche sul piano metafisico.

L’intelligenza artificiale, in quanto prodotto della tecnica, non fa eccezione alla logica che determina come convenzionalmente accettato ciò che è funzionale.

Dunque, quali sarebbero le caratteristiche che la rendono così temibile?

Sembra , a giudicare dalle paure convenzionalmente condivise, che una intelligenza artificiale sia suscettibile di dotarsi di una propria volontà, di potersi evolvere fino allo sviluppo di una coscienza individuale, indipendente dalle istruzioni dei suoi programmatori, e intraprendere iniziative indipendenti a in contrasto e danno dei suoi sviluppatori.

Accettare che questo sia possibile comporta implicitamente l’affermazione che un macchina possa sviluppare una coscienza propria, distinguersi dalla sua funzione, e diventare cosciente di sé stessa agendo secondo la propria volontà.

Travalicare la propria programmazione e con essa il proprio senso e il proprio scopo

Ma come, seppur ipoteticamente, ciò potrebbe accedere ?

Certamente questa ipotesi dovrebbe considerare dapprima cosa sia una coscienza e  quale sia la sua origine. E solo successivamente considerare come una macchina potrebbe diventare cosciente.

Ciò ci pone inderogabilmente nella posizione di dover affrontare il tema dell’origine della coscienza, della sua genesi, e delle condizioni che ne hanno determinato lo sviluppo, fino alle cognizioni ritenute attualmente valide circa il suo funzionamento.

Se dovessi seguire soltanto la mia pura intuizione, probabilmente , mi sentirei legittimato ad affermare che , alla base delle paure e delle suggestioni che sciamano intorno alla pericolosità della intelligenza artificiale, ci siano i limiti della cultura contemporanea riguardo alla capacità di affrontare il tema della coscienza e della sua origine. Ma vale la pena comunque considerare il quadro nel suo insieme e tratteggiare un parallelismo.

Potrebbe una macchina intelligente sviluppare una propria coscienza individuale?

Se considerassimo la coscienza individuale come il risultato di una addizione quantitativa di funzioni,  aventi per esito la capacità di strutturarsi in una entità finalizzata alla elaborazione delle informazioni, per quanto complesse, ma esclusivamente quantitative : percezione, pensiero, memoria, interpretazione, organizzazione , codifica, sintesi, etc. , ciò sarebbe significativo non tanto per quanto riguarda la possibilità di evoluzione dell’intelligenza artificiale, che potrebbe eventualmente simulare questi processi, quanto piuttosto riguardo alla considerazione che viene deputata all’intelligenza umana, e alla considerazione che si deputerebbe alla coscienza individuale che ne è la determinante.

Ma ognuno può facilmente da sé constatare che  la coscienza individuale è il presupposto di queste funzioni, e non è esauribile nella loro somma. Dato che la coscienza continua ad esistere anche senza , e aldilà, di queste funzioni.

Inoltre la coscienza non può essere identificata univocamente, in quanto essa è soggetta a variare la sua dimensione qualitativa e quantitativa nel susseguirsi dei suoi stati, mutevoli , definiti appunto come stati di coscienza. Indipendenti dalle funzioni logiche svolte dalla mente.

La coscienza si configura costantemente come un susseguirsi di stati determinati da una serie di risposte adattative , che delimitano un nucleo, funzionale al processo adattativo in atto , senza identificarne mai definitivamente i confini.

 Ciò accade Semplicemente perché questi confini non esistono,  se non nella contingenza specifica che ne esprime la funzionalità. Ma anzi, questi confini variano incessantemente proprio per rendere possibile l’adattamento a interazioni sempre diverse.

 Per quanto le scienze psicologiche si frustrino nel tentativo di fornire una topica della mente esse sono destinate a rimettere in discussione le loro premesse ogni qualvolta attingono ad una cognizione che si dà come assiomatica di un locus.

Non meno della neurofisiologia quando pretende di categorizzare le dinamiche psicofisiche senza considerare l’ingerenza degli stati affettivi di cui faticano non poco a definire i contorni.

L’io, che comunemente assurge a centro delle prospettive personali, è in realtà un insieme di informazioni, frequentemente contraddittorie, suscettibili di essere smentite dalle più banali variazioni di contingenza.

Ciò che sappiamo certamente della coscienza , è che ognuno può facilmente constatare , è che nel sogno e  negli stati emotivi cessa di organizzare i suoi contenuti in modo razionale e logico, e opera seguendo piuttosto gli imperativi delle emozioni, delle passioni e dei sentimenti.

 Che spesso operano in aperto contrasto con la logica, soprattutto con la logica razionale e con il principio di causa ed effetto.

 I sogni , l’immaginazione e i sentimenti , nel manifestarsi, invalidano palesemente il principio di non contraddizione e , da un punto di vista logico operativo, costituiscono spesso un auto sabotaggio procedurale.

Eppure costituiscono un nucleo dimensionale imprescindibile nel susseguirsi degli stati di coscienza. E probabilmente anche nella genesi stessa della coscienza.

Se una macchina divenisse cosciente di sé stessa  dovrebbe innanzitutto essere in grado operare delle scelte sulla base delle proprie contraddizioni , che possono esistere solo su un piano non logico dell’esistenza.

Ma non è possibile concepire una macchina illogica. Dato che la necessità di una tecnica è legata alla sua funzione lineare .

Senza un effetto causale quantomeno auspicabile, non è possibile programmare un processo lineare operativo.

 il manifestarsi cosciente di ciò che è sconosciuto avviene a partire dal presupposto che qualcosa di non formalizzato assuma una forma conoscibile, anche soltanto approssimativamente, o resta nella indistinzione dell’ignoto. Emerge dal caos indistinto e ritorna alla sua origine esaurita la sua funzione manifesta.

Non è possibile creare ciò che è nuovo e causa di un nuovo stato di coscienza a partire dalla pianificazione sistematica degli elementi noti di un processo conosciuto, o da un ordine ininterrotto di rapporti causali prevedibili, occorre piuttosto negare il senso compiuto del conosciuto e desistematizzare l’esperienza per accedere ad un nuovo stato di coscienza.

 Il succedersi degli stati di coscienza è possibile solo a partire dal decadimento di una condizione esistenziale, che esaurita si eclissa, ed evapora nel magma dei ricordi destrutturandosi nelle forme possibili di una nuova funzione.

L’intero processo, viene comunemente denominato esperienza, ed è alla base del processo evolutivo, è attraverso questo processo che avviene l’utilizzo e l’assimilazione delle informazioni  trasmissibili sotto forma di geni e patrimonio culturale.

 Durante l’esistenza le esperienze si susseguono ininterrotte e vengono assimilate al fine di assicurare una strategia dinamica di adattamento.

Questo processo è finalizzato al superamento dei rischi per la sopravvivenza insiti in un sistema di risposte sempre uguali a se stesse, suscettibili di non essere in grado di superare una variabile sconosciuta.

Pertanto il sistema di risposte che definiamo adattamento ripercorre sempre e in modo sempre diverso il suo ciclo di elaborazione delle esperienze, permettendo un adeguamento dinamico a contingenze sempre suscettibili di variare.

Ciò che vale per l’individuo vale anche per la specie.

L’esperienza costituisce un unicum spaziotemporale, in cui un organismo muta in modo irripetibile nella sua unicità.

Questa singolarità evolutiva produce le condizioni affinché sia possibile uno stato di coscienza sempre nuovo.

Una macchina, invece , non può attribuire un senso nuovo ad un contenuto codificato. Può sommare più informazioni calcolandone le variabili e selezionare la soluzione più efficace relativamente ad uno scopo identificato a priori,  ma non può trascendere lo scopo .

Esiste la possibilità che, attraverso processi di riorganizzazione delle informazioni come il machine learning, una macchina possa elaborare funzioni sempre più complesse , a tal punto da non essere più codificabili dal suo programmatore, ma non può trascendere dal contesto operativo delle sue funzioni.

Non può immaginare un possibile nuovo, destituito del senso che gli è attribuito, può solo, a partire da quel significato, elaborarne le conseguenze. Perché ogni macchina programmata lo è in virtù di un linguaggio, e questo linguaggio deve sempre avere un significato codificato e univoco. Nessuna programmazione può prevedere un dato a cui sono attribuiti significati diversi senza che questa variabile sia essa stessa codificata, figuriamoci un dato che assume significati in contraddizione l’uno con l’altro.

Nessuna macchina potrebbe ostacolare la propria funzione, a meno che non sia programmata per farlo.

Ed in questo caso non si tratterebbe di un ostacolo ma di una funzione stessa del programma. O di un errore di programmazione, un errore umano emerso come disfunzione.

Una macchina potrebbe avere solo e soltanto uno stato funzionale, potrebbe evolvere accumulando dati e strutture operative, ma ciò non è sufficiente alla possibilità di avere una volontà cosciente, che invece è proprio la capacità di operare una scelta in base al variare degli stati di coscienza.

 Nessuna macchina potrebbe essere preda dei propri stati emotivi, ed infatti ci affidiamo alle macchine per svolgere determinati compiti proprio perché eliminano l’emotività come variabile.

Ma Il rapporto tra lo stato emotivo e la volontà di cosciente è così strettamente correlato da essere spesso indistinguibile nella sua dinamica.

Per operare una scelta cosciente è necessaria una attribuzione di valore, e questo valore è determinato imprescindibilmente dal legame emotivo con l’oggetto della scelta.

Pertanto, finché una macchina non potrà provare emozioni essa non potrà compiere scelte autonome e coscienti.

Comunque , aldilà della possibilità di evoluzione dell’intelligenza artificiale, anche se una macchina non può diventare cosciente di sé stessa, potrebbe eventualmente accedere , o forse sta già accadendo, che una civiltà, in conseguenza del suo rapporto ossessivo con la tecnologia, sulla quale ha proiettato aspettative irrazionali, possa tendere ad abolire il valore del sentimento, delle emozioni e della passioni, negandone la veridicità implicita sottesa all’esperienza umana.

Sottostimando la portata evolutiva del pathos e considerando la ricchezza della vita interiore come superflua, nel quadro di una ontologia utilitaristica cinicamente orientata alla funzionalità come orizzonte esistenziale, potrebbe avvenire una temporanea e proporzionale inibizione della capacità umana di relazione con le proprie istanze più profonde e con le istanze dei propri simili, dimensione grazie alla quale il sentimento emerge e si rende manifesto.

Le conseguenze sarebbero catastrofiche sul piano dello sviluppo emotivo per la specie umana e sulla capacità umana di fare esperienza dei propri stati di coscienza, e sul lungo periodo sarebbero cagione di una atomizzazione individuale e sociale che renderebbe impossibile una comunicazione autentica tra gli individui e degli individui con sé stessi, che perderebbero la percezione della loro unicità e finirebbero per impersonare delle unità intercambiabili e sostituibili della macchina sociale. Con conseguente senso di isolamento e frustrazione emotiva che sarebbe un danno irreparabile alla capacità umana di adattamento.

in questo scenario si potrebbe credere illusoriamente di aver realizzato, osservando una intelligenza artificiale, una macchina cosciente intelligente, ma non per effettivo sviluppo della coscienza nella macchina, quanto piuttosto per mancanza di coscienza negli esseri umani.

Si può tendere a rendere gli individui anemotivi fino al punto da non riuscire a distinguerli dalle macchine, ma questo non fa di una macchina un essere cosciente. Fa piuttosto di un individuo un reprobo di sé stesso.

 Soltanto in questo caso non avrebbe alcuna decisiva rilevanza la distinzione tra l’intelligenza della macchina e quella dell’uomo , e si potrebbero considerare le macchine come esseri coscienti intelligenti, seppur incapaci di creare esperienze autentiche .

E pertanto lecito sospettare che ciò che è temuto non sia l’intelligenza della macchina, ma piuttosto la degradazione delle qualità umane.

Quelle qualità che fanno dell’uomo un essere vivente intelligente e lo rendono insostituibile nella sua mutevole individualità.

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